RESTAURO BARCHE ANTICHE
Se finanzierai questo progetto ci aiuterai a restaurare le barche antiche, che hanno fatto la storia delle gare remiere livornesi. Al momento ne abbiamo recuperate due: la Capitan Launaro e la Camici.
Entrambe hanno bisogno di un’approfondita opera di restauro. Il nostro sogno è che diventino le regine del Museo Gare Remiere che stiamo progettando.
Un patrimonio culturale che appartiene a tutta la città.
Se vuoi conoscere tutti i dettagli del nostro progetto continua a leggere sotto.
La visione di una barca mezz’affondata, in buona parte ricoperta da alghe che l’avviluppano in un abbraccio mortale, che prima o poi la porterà sul fondo, lascia sempre un triste sentimento di abbandono. Ma quando in questa barca si riconosce un gozzo che ha contribuito a fare la storia delle nostre gare remiere, ed un tempo ha ospitato giovani entusiasti, pronti a remare con tutta la forza per vincere una competizione, quella tristezza si trasforma in una fitta al cuore.
Questo è ciò che è accaduto alla Capitano Launaro, “dimenticata” nelle acque dei fossi medicei per essere recuperata e portata in un cantiere a Rosignano Solvay in attesa di un recupero che non è mai avvenuto, mentre il tempo e la vegetazione continuavano la loro opera di deturpo.
Un’antica barca ha bisogno di cure, manutenzione e di una collocazione che le restituisca dignità! Questa è la filosofia che sta alla base di questo progetto e che stiamo cercando di portare avanti.
La sensibilità dell’attuale Presidente Quercioli ha fatto si che la Capitano Launaro fosse riportata a Livorno in attesa di risorse importati per il suo restauro e al contempo per evitare stessa sorte alla barca Camici che il Comitato ha acquistato nel 2019 dalla Cantina dell’Ovosodo, che negli anni passati si è sempre presa cura, facendo una manutenzione costante, che l’ha tenuta in attività fino a pochi mesi fa.
Adesso anche lei è in attesa di un restauro più incisivo e di trovare una collocazione, dalla quale continuerà a raccontare la sua storia e magari qualche volta tornerà in acqua per partecipare a delle manifestazioni rievocative, mantenendo vive le tradizioni delle gare remiere di Livorno.
Per comprendere la nostra passione e l’amore per queste imbarcazioni, vi riproponiamo una breve storia e il racconto di cosa evoca il loro nome.
-Per la CAPITANO LAUNARO lasciamo la parola a Carlo Braccini che in questo articolo ne traccia una affascinante racconto.
Il 25 agosto del 1925, a Capo Passero, estremo lembo di Sicilia, affondava il sommergibile Sebastiano Veniero della classe “Barbarigo”. Il fatto accadde durante un’esercitazione militare dove il sottomarino, comandato da Paolo Vandone, entrò in collisione con il piroscafo “Capena”. Senza nessuna speranza di salvamento, tutti i 48 membri dell’equipaggio, tra cui il capo macchine Alberto Launaro, livornese di Borgo Cappuccini, perirono tragicamente. Solo nel giugno del 1993 venne ritrovato il relitto con il suo carico di morte. La notizia fece scalpore in tutta Livorno specialmente nel Rione di Borgo dove Launaro era nato, ed era conosciutissimo per la sua simpatia e il suo coraggio, che lo avevano reso famoso, tanto da divenire amico dello stesso Costanzo Ciano.
Due anni più tardi il tragico evento, nel 1927, viene fondato il Club Nautico Borgo Cappuccini di cui il primo presidente fu il ragioniere Adriano Pitto. A differenza di altri club nautici (come l’Avvalorati con il gozzo “Norge” o il Mercato con l’imbarcazione “Rex”), che si fecero costruire i gozzi fuori di Livorno, il Club Nautico rosso-nero (questi furono i primi colori del Rione) incaricò la costruzione della sua barca al famoso maestro d’ascia, Eugenio di Borgo e ai Fratelli Mengheri che si avvalsero dei consigli e della supervisione di Agide Carnevali che ne diverrà timoniere, oltre che allenatore.
Le sapienti mani di questi maestri d’ascia lavorarono sugli scali Novi Lena, nei pressi del rotondino e giorno dopo giorno, quello che sarà il gozzo da gara per eccellenza, prese forma. Risulterà infatti, per quei tempi, una barca agile, scattante, che qualsiasi Rione avrebbe voluto avere. Mancavano due cose: il colore e il titolo da dare. Si scelse il color grigio cenerino mentre, forse anche dietro pressione di Costanzo Ciano, amico di famiglia dei Launaro, il titolo fu quello di “Capitan Launaro”: nel Rione era sempre vivo il ricordo del giovane macchinista del Veniero morto atrocemente nelle acque di Sicilia.
Scrisse Aldo Guerrieri: “[…] sulla tomba di questo capitano di macchina, non furono sfrondati gli allori, ma le querce dei ligi al dovere, dei fedeli fino all’ultimo alle consegne onorate. Così, invece di legare il suo nome alla solita lapide e al solito monumentino, si trovò più degno di affidarne il ricordo a un gozzo a dieci, agile e saettante strumento di vittoria. Il suo nome -dissero- verrà gridato tutti gli anni; e metteremo noi tutta l’anima perché sia gridato più forte di tutti. La madre, rimasta a piangerlo in Borgo, non cessava di ringraziare tutti, fiera e lacrimosa. Tutti gli anni, correndosi il Palio, in Borgo la vedevano accendere il lumino alla Madonna, e mettercisi davanti in ginocchio, a pregare perché la barca del figliolo vincesse”.
E vinse, eccome! Sospinto da poderose braccia, scelte sempre con cura dall’esperto Agide Carnevali, tutt’uno con l’inseparabile gozzo, che curava personalmente, gli abitanti di Borgo poterono vantare ben dieci vittorie, tante ne vinse la Capitan Launaro su tredici Pali disputati, di cui quattro consecutivamente. Solo i venti di guerra interruppero la marcia trionfale del Capitan Launaro. Nel 1939, infatti, la micidiale imbarcazione corse il suo ultimo Palio dei Rioni. In quell’anno si sciolsero i Club Nautici e quasi tutti i vogatori furono chiamati a servire la Patria. Ma il regime volle far ugualmente correre, per sdrammatizzare la brutta situazione, il Palio a livello di dopolavoro aziendale, dove anche l’Accademia Navale prese parte. L’ultimo volere del ragionier Adriano Pitto, presidente dell’ormai sciolto Club Nautico di Borgo, fu quello di donare, o prestare, con la speranza di riaverla indietro a guerra finita, la Capitan Launaro con la quale l’università del mare gareggiò nel 1941 e ’42. Il famoso gozzo si impose anche nelle ultime due gare prima che i bombardamenti devastassero la nostra città, portando a 12 il numero delle vittorie conseguite.
Nel 1951 si riprese a correre il Palio con i sei rioni storici: Venezia, Borgo Cappuccini, Mercato, Pontino, San Jacopo e Ardenza, mentre nel 1952 i rioni partecipanti saranno sette grazie alla partecipazione di Antignano. Per far partecipare i nero-bianchi al loro primo Palio della ripresa, visto che il Borgo Cappuccini non aveva reclamato la restituzione del gozzo in questione, l’Accademia Navale, che lo aveva custodito per dodici anni, decide di regalarlo al Rione Antignano. Due anni più tardi, il 1954, la Capitan Launaro si aggiudica, con i nero-bianchi, la tredicesima e ultima vittoria su sedici gare disputate, mentre l’Antignano vince il suo primo e unico Palio nei dieci remi.
Negli anni avvenire assistiamo ad un lento declino della sezione nautica, che partecipa per molti anni alla gara delle gozzette mettendo in disparte la storica imbarcazione a dieci remi. Solo nel 1983, come scrive Luca Fornai, tifoso nero-bianco, sul consuntivo di quell’anno, vengono fatte le dovute riparazioni. Ecco cosa scrisse: “Abbiamo portato al moletto un rottame, ma è nostra intenzione ricostruirlo in modo da avere un mezzo di allenamento per i giovani, a disposizione per tutto l’arco dell’anno”. Il gozzo viene intitolato a Mauro Volpi che fu dirigente della sezione nautica Antignano. I nero-bianchi tengono in esercizio la vecchia imbarcazione fino al 1998, anno in cui viene definitivamente abbandonata.
Nel 2004 il Comune di Livorno decide di donarlo all’Associazione Culturale “La Livornina” per la formazione del corteo storico Città di Livorno. Ma, nel frattempo, l’Antignano, decide di vendere il gozzo alla sezione nautica dello Shangay. Viene così fatto un accordo tra la Livornina e lo Shangay: la sezione nautica si accolla l’onere del ripristino dell’imbarcazione, che può usare tutto l’anno per gli allenamenti, con la clausola di metterlo a disposizione dell’associazione culturale per le uscite storiche. Ma come riparare un gozzo in legno e per giunta molto vecchio? Ci vorrebbe un maestro d’ascia e l’unico a Livorno che può riportare la Capitan Launaro ai suoi antichi splendori è Fulvio Pacitto, ma una spesa così alta lo Shangay non se la può permettere. Si decide quindi di resinare esternamente lo scafo, ma i lavori effettuati non hanno l’esito desiderato. Al primo contatto con l’acqua, il gozzo rischia addirittura di affondare.
Il Comune riprende in mano la situazione e decide di eseguire un’altra resinatura esterna e adotta i colori amaranto e bianco caratteristici degli scifi, ma non volendo accollarsi il mantenimento del mitico gozzo, nel 2007 lo affida alla Livornina la quale, non avendo a disposizione un pontone decide di ormeggiare la Capitan Launaro sotto gli spalti della Fortezza Vecchia. Dopo ripetuti allarmi lanciati dall’Associazione Culturale agli organi competenti per salvare l’antica imbarcazione, assistiamo ad un suo lento deterioramento. Abbandonato a se stessa, la Capitan Launaro rischia più di una volta di colare a picco per sempre ed è solo grazie all’interessamento del buon Gino Falanga che l’eterno gozzo non abbia fatto la fine di colui che per tanti anni ha portato il suo nome. Falanga lo traina, forse per l’ultima volta in mare, fino alla cantina del Palio Marinaro dove viene tenuto sott’occhio dal famoso uomo di mare, che più di questo non poté fare.
Adesso la barca è diventata il primo obiettivo del progetto di restauro del Comitato Organizzatore Palio Marinaro e speriamo possa essere lei ad inaugurare il museo del remo, che vogliamo realizzare nella nostra città.
Articolo di Carlo Braccini
–LA CAMICI ha invece una storia più breve, perché ovviamente più giovane. La ricostruzione della sua storia e del nome che porta la dobbiamo a Carlo Braccini, a Otello Chelli e all’indimenticabile Garibaldo Benifei, che nel sul libro Per la Libertà- Trent’anni di memorie fra antifascismo, Resistenza e cooperazione pubblicato dalla Coop Toscana Lazio – Sezione Soci di Livorno, ricorda la figura di Mario Camici.
Il gozzo è andato in pensione da un paio di anni ed è diventato un simbolo della Cantina dell’Ovo Sodo, dalla quale è stato acquistato dal Comitato Organizzatore Palio Marinaro per poterlo recuperare ed inserire nei cimeli della storia del Palio. L’ imbarcazione, realizzata in chiglia e fasciame di legno, ha una lunghezza di 8,40 metri e fu costruita nel 1951 dal Cantiere Mazzantini & Romoli e fu commissionata, assieme ad altre cinque “sorelle gemelle”, dal Comitato Estate Livornese, diventando la terza generazione di gozzi del Palio Marinaro. Infatti, la prima serie fu del 1925 quando le cantine si costruirono i gozzi per conto proprio, ci fu poi la generazione del 1936 ed arriviamo a quella della Camici nel 1951.
L’Ovo Sodo ha gareggiato con questo gozzo fino al 1971, quando arrivarono le barche della quarta generazione. La dirigenza bianco-gialla, alla quale va il nostro plauso, decise comunque di tenere il gozzo per gli allenamenti giornalieri dell’equipaggio, prendendosene cura con una costante manutenzione, fatta in casa dagli stessi cantinieri, che ha permesso all’imbarcazione di arrivare fino ai giorni nostri. Del mitico gozzo in Cantina conservano ancora due foto che lo ritraggono: in una, addobbato a festa in occasione di una manifestazione rievocativa alla fine degli anni ’80, e nell’altra, sempre addobbato a festa, durante il 1° Palio dell’Antenna.
Interessante l’origine del nome, assegnata dal Comune, perché anche in questo caso ci permette di ricostruire una parte della storia di Livorno.
Scrive Garibaldo Benifei: “Mario era nato nei dintorni di piazza Cavallotti ed era cresciuto in mezzo ai carretti del mercato all’ingrosso di frutta e verdura che a quei tempi vi si teneva. In piazza lavorava come facchino ed era conosciuto da tutti. Era stato arrestato nel 1930 e condannato (assieme ad altri diciotto antifascisti) dal Tribunale speciale a quattro anni, come capo della cellula comunista del suo quartiere.
Uscì due anni dopo, al tempo dell’amnistia del decennale, ma le percosse subite dalla polizia al momento dell’arresto, i due anni di carcere duro, le vicissitudini subite nel frattempo dalla moglie e dai figli lo avevano indebolito nel fisico e nel morale. Poche settimane dopo il suo rilascio contrasse una grave infezione broncopolmonare che lo condusse alla morte, il 21 di marzo del ’33.
Il partito, mostrando di aver recuperato le proprie capacità organizzative, volle fare in modo che le onoranze funebri si trasformassero in una silenziosa e solenne manifestazione contro il regime. Vi fu, in quelle ore, un lavoro febbrile di tutti i militari per prendere contatti anche con gli altri movimenti politici, i quali aderirono all’idea di una dimostrazione di forza dei democratici livornesi contro il fascismo. Io e il mio gruppo avevamo l’incarico di portare in piazza più giovani che fosse possibile.
[—] ai funerali la partecipazione della gente fu massiccia: alcune migliaia di persone (ma il rapporto della Prefettura, inviato alle alte gerarchie romane, non osò ammetterlo), camminare in silenzio dietro al feretro che da via Serristori veniva trasportato verso il Cimitero dei Lupi. Sfilammo lentamente, indisturbati, per le vie di Livorno, in un silenzio teso. Nella zona del Pontino e in via Garibaldi c’era tanta gente che attendeva lungo i marciapiedi: molti si unirono al corteo che, contrariamente all’usanza solita, anziché fermarsi alla Porta San Marco proseguì compatto fino al piazzale del cimitero, dove si sciolse solo dopo l’ultimo saluto a Mario Camici.
Di fronte a quella folla, fosse per calcolo o per una sorta di temporanea soggezione, né i miliziani fascisti, né la polizia avevano avuto in quel momento l’ardire di intervenire in alcun modo […]”.
Nella storia di queste due barche c’è la motivazione del perché stiamo investendo tanto impegno in questo progetto. Sentiamo che sono un patrimonio dei livornesi e vogliamo conservarlo e trasmetterlo alle generazioni future.