Ghighe Langella

Rione Pontino

Rioni

Pontino - San Marco

Una vita al timone delle barche da corsa

Da dove viene questa passione per il mare ed il ruolo del timoniere? «Io sono nato in via del Mulino a Vento, proprio sopra gli scali D’Azeglio, dove i canottieri livornesi hanno ancora oggi lo loro sede. Così mentre i miei coetanei giocavano a pallone, io mi divertivo a saltare da una barca all’altra, tanto che a nove anni, nel 1934, mi misero al timone di un quattro e disputai così la mia prima gara. Una volta, nel canottaggio, al timone si mettevano i bambini perché pesavano poco».

Con chi era in barca? «Non lo ricordo proprio. Allora l’Unione Canottieri aveva dai 70 agli 80 vogatori. So che invece ho sostituito più volte, durante gli allenamenti, Cesare Milani, sull’otto degli Scarronzoni (e di uno Sscarronzone diventerà parente, visto che Canzio Vivaldi prese in moglie sua sorella Anitina) che si preparavano per le Olimpiadi di Berlino del 1936. Poi entrai nella Polisportiva e, a 11-12 anni, facevo il timoniere per Ottorino Quaglierini, Alberto Bonciani, Dino Cecchi e Mancini, il proprietario della Barcarola, quello che aveva sposato la signora Palmira».

Poi la guerra spazzò via tutto. «All’inizio della guerra riuscii ad imboscarmi a Fiume dove lavoravo in una fabbrica di siluri, la Whitehead. Quando arrivò l’8 settembre decisi di tornare in Italia e m’imbarcai sulla prima nave di passaggio. Non sapevamo dove fosse diretta, ma un paio di giorni di navigazione ci sbarcarono a Brindisi. Una volta a terra, mi presero e mi misero in un campo di prigionia, ma era italiano e la sorveglianza era relativa e così riuscii a scappare e iniziai a vagare per la Puglia».

«A Barletta però mi catturarono i tedeschi e, siccome avevo ancora addosso il cartellino della fabbrica di siluri, mi considerarono un traditore e mi misero al muro vicino ad una masseria. Per fortuna, proprio in quel momento, passò a volo radente uno stormo di aeroplani americani e i soldati del plotone d’esecuzione, si misero a correre come matti alla ricerca di un rifugio. Io non melo feci dire due volte e scappai a gambe levate dopo aver saltato il muro. Due chilometri dopo mi trovai davanti ad un pozzo e non ebbi esitazioni: mi ci buttai a capofitto sperando che fosse pieno d’acqua e che i tedeschi non mi avessero visto. Meno male che l’acqua c’era e il pozzo era di quelli a imboccatura stretta, ma larghi sul fondo. Cosi, quando i tedeschi vennero anche lì a cercarmi, mi rifugiai in un angolo buio e rimasi sette ore a mollo per evitare che mi beccassero. Allora ero agile come un gattino e riuscii ad uscire da solo dal pozzo».

«A Taranto mi unii ad un altro livornese, il sergente-maggiore Mario Pistolesi, che era stato appena congedato, e con lui riuscii a raggiungere Livorno dove rientrai nell’Unione Canottieri. L’anno successivo, pur essendo passati in pochi giorni dall’otto iole a quello fuori scalmo, con Renato Cecchi come capovoga, si vinsero tutte le gare. Purtroppo, pochi giorni prima che ci recassimo a Padova per disputare il titolo dell’otto senior, Balleri si ruppe un polso sotto la doccia. Eravamo tutti giovani e gli scherzi si sprecavano. Non avevamo riserve e così fummo costretti a rinunciare».

«E pensare che la nostra barca, che aveva ancora margini di miglioramento, era più veloce di due secondi del Varese, che vinse il titolo e poi anche il campionato d’Europa. La nostra vittoria più importante, in quell’anno, fu comunque quella di Lucerna. Era la gara più bella d’Europa e con noi si schierarono alla partenza ben nove equipaggi stranieri. Nel 1950 poi, anche per la rinuncia di Cecchi, deluso dal forfait di Padova, cambiammo metà equipaggio, ma non servì; così per sette o otto anni continuammo a bruciare cinque o sei elementi nuovi ogni anno, ma inutilmente».

E il Palio? «Con il Palio iniziai nel 1952. Morivo letteralmente di fame e allora andai dall’allenatore Cesare Milani chiedendogli se potevo mettermi al timone dell’Ovo Sodo visto che mi avevano offerto 45.000 lire, in pratica tre stipendi. Arrivammo secondi a meno di 4 secondi dal Venezia. Quando rientrai all’UCL Milani mi informò che avevano ritenuto opportuno sostituirmi con Disma Magagnini detto Calcuttino (il fatto che anche lui avesse disputato il Palio giungendo quinto con il San Jacopo contava evidentemente poco) e che avrebbe fatto lui i campionati italiani. Pensai che fosse giusto perché un favore mi avevano fatto e uno lo rendevo. Però arrivarono solo secondi ed allora addebitarono a me la sconfitta e pensarono bene di cacciarmi per “infamia” dall’UCL».

«Nel 1954 ero al timone del Venezia ed eravamo i favoriti d’obbligo visto che i rosso-bianchi avevano vinto nei tre anni precedenti. A sorpresa ci superò, per un secondo e 4 decimi, l’Antignano con al timone Marino Figaro Carnevali, che nessuno pensava potesse essere un avversario visto che l’equipaggio era stato messo insieme in pochi giorni».

Complessivamente Langella, che è stato al timone di Venezia, Borgo Cappuccini, Fiorentina, Mercato e Pontino San Marco, ha vinto quattro volte nel Palio (1956 con il 4 del Mercato), nel 1966, 1967, 1968 con il Pontino. Nel 1966, 1968 e 1970, sempre con il Pontino, ha vinto anche la Barontini.

A proposito di una delle gare di Langella scriveva su “La Nazione” nel 1964 Lorenzo Gremigni: “Al giro di boa Borgo Cappuccini con al timone Ivano Salvadori, entrava con un buon margine di vantaggio, ma la sua virata era farraginosa e troppo larga e Venezia, incitato e guidato benissimo dal suo timoniere Langella, virava stretto in maniera perfetta e riguadagnava molto del terreno perduto in precedenza, portandosi all’altezza del gozzo rivale. Ormai era evidente che la gara aveva una sua fisionomia, anche se ai veneziani veniva il tuffo al cuore nel vedere il loro armo rimontare e portarsi alla pari con il Borgo, quasi leone pronto ad azzannare la propria preda. Preda che però non ne ha voluto sapere; a metà del percorso di ritorno infatti il Borgo è riuscito a riprendere il comando della gara ed ha dato la sensazione che i giochi fossero ormai conclusi”.

“A questo punto è esaltata la rabbia di Venezia che ha cominciato a produrre il suo sforzo finale, uno sforzo lunghissimo ed entusiasmante anche se però iniziato troppo presto. Nel finale infatti i dieci rematori erano stremati; ai 100 metri, quando Borgo Cappuccini ha iniziato la sua reazione, Venezia era in lieve, ma netto vantaggio. E qui si è assistito alla fase entusiasmante della gara in quanto è sembrato che il Borgo potesse facilmente aver ragione dei rivali in calo. Negli ultimi 50 metri però i ragazzi di Langella hanno ritrovato spinta e coordinamento ed hanno lottato fino all’ultimo a denti stretti. A circa tre metri dal traguardo i due armi erano inequivocabilmente sulla stessa linea, tanto da far pensare ad un arrivo ex-equo: sarebbe stata la prima volta in assoluto. In realtà la linea d’arrivo ha trovato il Borgo in palata ed il Venezia fuori remo e così sono stati i bianco-neri ad aggiudicarsi la gara”.

E il canottaggio? «Lasciata l’UCL, Palio a parte, ho fatto il timoniere e l’istruttore per la Polizia, la Finanza e i Corazzieri. Nel 1962 con i livornesi Giorgio Sonetti e Marino Sansoni ho conquistato il secondo posto agli italiani che si disputavano a Milano, all’Idroscalo. L’ultima gara invece l’ho fatta nel 1970 quando perdemmo il Palio per quattro secondi a causa del tipo di grasso da utilizzare per i remi. Allora si usavano sego, strutto, cera di candele e quanto altro. Tutto materiale che tendeva a impastare gli stroppoli. Io suggerii di andare da Fonain a comprare un barattolo di vero grasso per 10 mila lire, ma non mi diedero retta e così in gara si inchiodò la bordata dispari e per quanto abbia tentato di compensare la deriva della barca con il timone riuscimmo solo ad arrivare secondi. Scesi di barca e non vi sono più rimontato».

Poi si è dedicato a compiti d’istruttore? «Si, sempre per il Pontino anche se avevo avuto diverse richieste. Ho continuato come istruttore e consigliere fino all’anno scorso quando, 15 giorni prima della Risicatori, essendo in disaccordo con la dirigenza, presi i miei ciottoli e me ne andai. Erano loro che avevano bisogno di me e della mia esperienza e non certo io di loro. Dopo 37 anni passati lì dentro, non sono nemmeno stati a sentirmi e così ora, purtroppo, navigano in brutte acque, tanto che sarà oro che cola se riescono, quest’anno, a salvare la barca».

Non è però che avete vinto molto. «Forse durante questi anni avremmo potuto ottenere qualche successo in più, ma una serie di circostanze, tipo il fatto di avere un grande timoniere come Alberto Disgraziati, ma soggetto a terribili sbalzi d’umore e alla passione per le scommesse, lo hanno impedito. Ora sto a guardare. Peccato perché mi divertivo, soprattutto a curare i ragazzi, che sono la linfa vitale per le cantine. Un lavoro che curavo in modo pignolo, perché le cose o si fanno a modo o non si fanno: io arrivavo in cantina alle 15 e me ne andavo alle 11 la sera».

Il suo rimpianto? «Mi hanno fregato più volte la possibilità di andare alle Olimpiadi. Il consiglio della Federazione mi chiamava, io mettevo su l’equipaggio federale, soprattutto quello dell’otto, e lo preparavo. Loro però, volevano sempre mettere bocca quando ormai eravamo troppo a ridosso delle gare e io non mancavo di rimarcarlo. Così, prima della partenza, mi facevano consegnare dal lift dell’albergo (senza avere il coraggio di dirmelo di persona) il biglietto con cui mi si invitava a tornare a casa. Soprattutto negli anni attorno al 1960 i vari consiglieri lottizzavano i posti per recarsi alle Olimpiadi e premiare gli atleti che avevano sudato tutto l’anno non gliene fregava niente».

«Potevano anche restare a casa. Molto meglio distribuire i posti a parenti ed amici e quindi era facile che alle Olimpiadi andassero gli armi con meno uomini. Portare l’otto voleva dire occupare 12 posti. Alle Olimpiadi di Roma, nel 1960, fui buttato fuori dal villaggio olimpico alle 7 del mattino. Se fossi rimasto lì, fino all’alzabandiera, non avrebbero più potuto farlo. Avevano promesso che, comunque, avrebbero dato i biglietti per assistere alle gare a me, Unico Marconcini e Giorgio Sonetti, ma restammo tutti e tre fuori dai cancelli. Poi passò di lì un giornalista della BBC di Londra che io non conoscevo. Lui però sapeva chi ero e mi regalò uno dei suoi pass: così io solo riucii ad andare in tribuna».

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